20 Marzo 2015

Le conseguenze della vittoria di Netanyahu

Ancora una volta vince Benjamin Netanyahu. Il suo partito, il Likud, ha ottenuto 30 seggi  nella Knesset. Il leader laburista Isaac Herzog, favorito dai sondaggi della vigilia, ma uscito sconfitto, ha escluso ogni ipotesi di governo di unità nazionale. La vittoria del premier uscente nasce certamente dalla svolta nazionalista della sua campagna elettorale. Netanyahu ha infatti chiamato a raccolta l’elettorato di destra, adoperando toni e argomenti sicuramente molto forti. Prima di tutto ha promesso che, con lui al governo, “non nascerà mai lo Stato Palestinese sui territori di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est”. Ma non solo, ha anche garantito che “non vi saranno più scarcerazioni di terroristi”. Sono solo due esempi che ci fanno comprendere, come il Likud abbia attirato non solo gli elettori tradizionali, ma anche buona parte dei sostenitori delle forze politiche alleate, come Baiyt Ha-Yehudì o Israel Beitenu . La coalizione, e quindi il successivo governo, si preannunciano stabili. Il centro-destra governerà ancora in Israele. Quali conseguenze per gli israeliani e per Israele stesso, alla luce di questa scelta?

In parte lo si accennava già prima, una probabile conseguenza potrà essere la  fine della soluzione a “due Stati”. Anche se, nella serata di ieri, il premier israeliano ha dichiarato: “io voglio una soluzione con due Stati, pacifica e sostenibile. Ma le circostanze devono cambiare”. Di certo quello che può apparire come un cambio radicale, rispetto a quanto affermato nei due mesi di campagna elettorale, di fatto non lo è.  Abu Mazen, il leader palestinese, rifiuta di riconoscere lo stato ebraico, si è alleato con Hamas che invoca la distruzione dello stato ebraico. Quando Netanyahu parla di “circostanze che devono cambiare”, si riferisce proprio a quest’ultima osservazione. La pace, così come la soluzione a “due Stati” sembrano lontane. Di certo non per colpa di Israele.  Il rischio principale però, è che una rinnovata politica oltranzista del Likud (in Cisgiordania con gli insediamenti e nei confronti della Palestina), sia il pretesto perfetto per i gruppi armati palestinesi  per colpire ancora in Israele. Per comprendere meglio la situazione, si deve guardare al principale alleato di Netanyahu, Bennett.  Quest’ultimo guarda oltre la formula di Oslo dei due Stati. Bennett sarebbe propenso a ricercare nuove forme di convivenza con i palestinesi, che si basano sulla sicurezza degli oltre 250.000 israeliani, e al contempo, lasciare maggiore libertà di movimento per gli oltre 1,8 milioni di palestinesi. Il piano che Bennett ha presentato per annettere ad Israele le cosiddette “aree C” della Cisgiordania (le zone  a pieno controllo civile e militare israeliano), prevede anche una proposta di rafforzamento dell’autonomia dell’Autorità Palestinese. È una strada che Netanyahu potrebbe far propria, puntando a coinvolgere la Giordania di Re Abdallah in un nuovo assetto di sicurezza regionale, forte del sostegno anche dell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, con cui condivide l’ostilità per Hamas nella Striscia di Gaza.

Sul fronte occidentale, Usa in primis, i rapporti rimangono freddi. Considerando il deteriorarsi del rapporto Obama-Netanyahu, probabilmente nessuno alla Casa Bianca ha gioito nel vedere i risultati finali dell’elezione di martedì. Anzi, assumendo sempre un eventuale governo di centro-destra , non è da escludere che la crisi tra Israele e gli Stati Uniti si intensifichi. Tuttavia, bisogna avere cautela. Gli argomenti con cui “Bibi” sembra aver convinto l’elettorato, potrebbero potenzialmente rivelarsi un boomerang. Il suo futuro governo, infatti, dovrà necessariamente rispondere ad una serie di questioni interne (prima di tutto sociali ed economiche), che si sono dimostrate molto sentite dagli elettori in fase di campagna elettorale. Se così non fosse, e se il Likud continuasse solo ed esclusivamente sulla strada dello spauracchio esterno, Netanyahu rischia fortemente di scontentare molti israeliani.

di Piero De Luca

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